Molte delle mie conversazioni quotidiane non implicano un contatto visivo. Il mio compagno di stanza mi scrive da una camera da letto vicina. Il mio capo mi manda un messaggio da qualche metro di distanza. A volte, sostituire il parlare faccia a faccia con le parole su uno schermo mi mette a disagio. Altre volte invece passa inosservato, e anch’io mi cerco una tastiera invece dello sguardo di qualcuno.
Sherry Turkle, psicologa e sociologa clinica presso il Massachusetts Institute of Technology, ha passato gli ultimi 30 anni ad osservare come le persone reagiscono e si adattano alle nuove tecnologie che cambiano il modo in cui comunichiamo. Nel suo ultimo libro, Reclaiming Conversation: The Power of Talk in a Digital Age, Turkle sostiene che i testi, i tweet, i post di Facebook, le e-mail, i messaggi istantanei e gli snapchats – simultanei e rapidi “sorsi” di comunicazione on line – hanno rimpiazzato al conversazione faccia a faccia. E che le persone cominciano a notare le conseguenze. La sovrautilizzazione dei dispositivi, sostiene, sta danneggiando la nostra capacità di avere preziose conversazioni faccia a faccia, “la cosa più umana che facciamo”, frammentando la nostra attenzione e diminuendo la nostra capacità di empatia.
Il libro mette insieme gli ultimi cinque anni di ricerca di Turkle – interviste e aneddoti da bambini, adolescenti, studenti universitari, genitori, educatori e manager – con le intuizioni del suo background da psicologa. Le storie che presenta mostrano istantanee di persone che combattono con le conseguenze sociali delle mutazioni nelle tecnologie di comunicazione.
Nel suo libro precedente, Da soli insieme: perché ci aspettiamo di più dalla tecnologia e meno dagli altri, Turkle ha documentato l’adesione totale agli smartphone e alle altre nuove tecnologie. Ora scrive di un crescente scontento: bambini che chiedono ai genitori di metter via i loro telefoni a cena, persone che si sentono trascurate quando i loro amici mettono una chiacchierata “in pausa” per scomparire nei loro smartphone. La diagnosi centrale di Turkle: “Noi ci rivolgiamo ai nostri telefoni anziché gli altri” nell’amicizia, in famiglia, nelle relazioni amorose e sul lavoro.
Qual è la sua ricetta? Ricavare “spazi sacri” per la conversazione nella vita quotidiana, momenti senza dispositivi, a tavola durante il pranzo, nello studio, in bar e locali senza wi-fi. Abbandonare per sempre il mito del multitasking – non è efficiente né favorisce l’empatia, dice – e invece abbracciare il monotasking, fare una cosa alla volta. Resistere alla tentazione di vedere lo smartphone come strumento universale che dovrebbe sostituire tutto.
Mentre Turkle dipinge un fosco ritratto di ciò che i dispositivi possono fare allo sviluppo sociale ed emotivo dei nativi digitali, scrive che dopotutto il “malcontento dei giovani” è incoraggiante. Non posso che essere d’accordo, come membro della generazione che si trova da qualche parte tra nativi digitali e i neofiti del web – ho avuto il mio primo iPhone a 16 anni, e ha segnato un punto di svolta profondo nella mia vita. Ma Turkle considera anche la generazione più giovane. Rimane da vedere se e come i miei coetanei e quelli più giovani di noi “reclameranno la conversazione” per se stessi.
Ho parlato con Sherry Turkle di tutto questo e altro ancora. Ecco una trascrizione della nostra conversazione leggermente modificata e condensata.
Lauren Cassani Davis: Che cosa vuoi dire esattamente quando dici che stiamo vivendo una “fuga dalla conversazione”?
Sherry Turkle: Osserva delle persone a tavola, quando allo stesso tempo stanno al telefono e parlano con i loro commensali. Chiedi loro che cosa sta succedendo, e ti spiegheranno quello che alcuni chiamano “la regola del tre”: aspetti che tre persone rialzino la testa dal loro telefono prima di abbassare la tua, in modo da assicurarti che la conversazione persista. Ma poi la gente ammette che se tutti facessero attenzione sarebbe un’altra cosa. Le prove sperimentali lo confermano: se tra due persone hai un telefono sul tavolo, le persone nella conversazione si sentono meno collegate tra loro.
Davis: Usi molto la parola “empatia” per descrivere ciò che si perde in queste situazioni. Come definisci l’empatia?
Turkle: L’empatia di cui sto parlando è la capacità psicologica di mettersi al posto di un’altra persona e immaginare cosa sta provando. Ha una base neurologica, sappiamo che siamo “cablati” per farlo. Quando metti i giovani in un campo estivo dove non ci sono dispositivi, entro cinque giorni comincia a riemergere la loro abilità di guardare una scena e identificare con successo cosa i protagonisti della scena potrebbero sentire, capacità che al loro arrivo, armati di cellulari e tablet, era molto impoverita. Noi sopprimiamo questa abilità mettendoci in ambienti in cui non ci guardiamo negli occhi. Non stiamo attenti a un’altra persona abbastanza a lungo o intensamente da seguire quello che sentono. Ho intervistato gruppo di studenti universitari, e uno di loro ha detto: “Scrivere messaggi va bene, il guaio è cosa scrivere messaggi fa alle nostre conversazioni quando siamo insieme”. Io penso che i social media siano fantastici. La domanda è: teniamo una dieta di social media che fa male alla conversazione faccia a faccia? E se sì, come possiamo cambiare dieta? Questa è la discussione che sto cercando di spronare.
Davis: Dici anche che un altro fondamento della conversazione è la solitudine, l’introspezione personale. Perché pensi che le tecnologie siano specificamente responsabili dell’erosione della nostra capacità di star soli?
Turkle: Non voglio dire che le tecnologie siano responsabili come se fossero l’unico [fattore]. Ma penso che la tecnologia abbia un ruolo molto importante, perché [i dispositivi mobili], a differenza di altre tecnologie simili, fanno tre promesse che io chiamo “i tre doni del buon genio”: non sarai mai solo, la tua voce sarà sempre ascoltata, potrai spostare la tua attenzione ovunque lo desideri. E potrai scivolare dentro e fuori da dove ti trovi, andando nell’altrove che ti pare, senza soffrire alcuno stigma sociale. [Questi dispositivi infatti creano] un nuovo insieme di costumi sociali che autorizzano un’attenzione parziale nei rapporti umani e nella comunità umana. Sono cresciuta con i libri e non avrei mai potuto dire “Oh, scusami” e aprire un libro nel bel mezzo di una conversazione con un amico, senza pagarla. Non esisteva il permesso di scivolare da Nancy Drew ai tuoi amici e viceversa. In pratica ora noi stiamo dicendo alle persone che non sono così interessanti o informative come ciò che possiamo raggiungere all’istante [sui nostri dispositivi]. Le persone devono impegnarsi per non sentirsi svalutate quando vengono messe “in pausa” durante una chiacchierata. Quelle che ho intervistato dicono: “Mi fa sentire malissimo. Non l’avrei mai detto, ma è così. Sento di essere messo in pausa. È brutto quando sono io a fare lo stesso ad altre persone, ma il fatto è che non mi viene da pensare a come si sentono loro quando lo faccio”. Partecipare pienamente alla rivoluzione mobile ci impone di sopprimere il nostro “gene” dell’empatia.
Davis: In qualche modo, quello che stai descrivendo è una cultura dell’individualismo dove i codici di etichetta non ci impediscono di stare al telefono. Non spunta più fuori quel “mi sento male perché non ti sto dando la mia attenzione”. Potrebbe essere che questo precede i telefoni? Non lo so.
Turkle: È una domanda molto affascinante. Si potrebbe dire che questo è un codice radicale dell’individualismo – talmente radicale che neghiamo il potere di tutte le affiliazioni di gruppo anche quando vi prendiamo parte. Eppure, allo stesso tempo quando siamo on line parliamo di nuove comunità e dell’importanza della nostra partecipazione a nuove comunità. Insomma, siamo in un gran pasticcio. Certamente tutto ciò fa riferimento al conflitto tra le persone, che è uno dei miei grandi temi. Le statistiche che mi piacciono sono quelle del rapporto Pew. Si tratta di un rapporto pieno di confusione. Oltre l’80% degli intervistati affermano di aver avuto il telefono in evidenza durante la loro ultima interazione sociale, e descrivono in quali modi ciò era positivo per loro: stavano condividendo, stavano cercando cose. Abbiamo molti modi positivi per descrivere come usiamo i nostri telefoni. Ma quando si arriva alla domanda chiave, “Che effetti pensi che abbia avuto sulla conversazione?”, l’82% dice che l’ha deteriorata. Viviamo in un ambiente in cui facciamo cose che ci mettono in conflitto, come avvertiamo chiaramente e come la ricerca dimostra. Cose che non fanno bene alle comunità e all’amicizia. Messaggiamo durante i funerali. Messaggiamo durante le funzioni di tutti i tipi. Quando chiedo alle persone perché lo fanno, dicono che messaggiano durante le parti noiose. Ma che significa dire: sono andato a un funerale e quando il funerale è diventato noioso mi sono messo a messaggiare? Che cosa hanno dimenticato, queste persone, del senso e degli scopi di un funerale? E che cosa insegnano ai loro figli? Hanno dimenticato che il funerale è fatto apposta per stare insieme con le altre persone, nient’altro.
Davis: Cosa pensi che distingua il periodo di cambiamento tecnologico che abbiamo sperimentato negli ultimi dieci-venti anni con internet e i dispositivi mobili, da altri importanti periodi di trasformazione tecnologica come l’invenzione del telefono, l’invenzione del telegrafo, o anche il passaggio dalla parola orale a quella scritta? Le crisi dei valori umani sono una parte inevitabile del cambiamento tecnologico e dell’evoluzione umana: in cosa è diverso quello che stiamo attraversando in questo momento?
Turkle: È la velocità. E il nostro grado di consapevolezza degli effetti negativi che i nostri dispositivi hanno su di noi. Quello che stiamo vivendo non è una reazione ideologica (“Oh, il romanzo ci renderà immorali!”). Stiamo constatando, con i nostri figli, nelle nostre relazioni amorose, nel nostro sistema educativo, sul lavoro, che ci non stiamo più concentrando sull’altro. Non ci parliamo più dedicandoci piena attenzione. Però possiamo fare qualcosa.
Davis: Come pensi che la tua formazione in psicoterapia abbia influito sul modo in cui hai raccolto la tua ricerca e sui valori che proponi?
Turkle : Sono stata molto plasmata dalla mia formazione psicoanalitica e psicodinamica. È una tecnica della parola! Che tu creda o no nelle sue peculiarità, la tradizione psicoanalitica ci sensibilizza alle nostre storie, ai modi di dire le cose, non solo al contenuto di ciò che diciamo, a cose che dimentichiamo ma che possiamo ricordare nel giusto contesto o con la persona giusta. Ci sensibilizza al potere della conversazione come un modo per recuperare noi stessi, al potere dell’auto-riflessione come un tipo privilegiato di conversazione con il sé. La psicoanalisi insegna le virtù della solitudine.
Davis: Tu citi l’idea che le future tecnologie possano essere progettate pensando alle nostre vulnerabilità, ad esempio incoraggiandoci a distoglierci da esse dopo averle usate. Conosci qualcuno che sta perseguendo attivamente questo tipo di ricerca?
Turkle: Sì. Tristan Harris di Google, che distingue il tempo speso sui nostri dispositivi e il tempo ben speso. Gilles Philips, che ha fatto un lavoro brillante su come i nostri dispositivi ci tengano sempre in uno stato vicino all’ipervigilanza, che non è una buona condizione in cui stare. Entrambi sono ingegneri, ed entrambi mirano a un futuro molto diverso.
Davis: Durante la tua ricerca hai passato un po’ di tempo nei campi per bambini dove non sono ammessi dispositivi. Pensi che questi campi dovrebbero essere più diffusi? E che ne pensi di analoghi campi senza dispositivi per gli adulti?
Turkle: Penso che persone diverse troveranno modi diversi per prendersi del tempo libero da dispositivi mobili. Per alcuni sarà un campo. Per altri sarà una sorta di giorno sabbatico. Oppure un momento del giorno. Ma credo che questo accadrà.