Quarta puntata sulle formule “magiche” che regolano il nostro mondo. Oggi è il turno degli indici bibliometrici.
Sono le formule usate per calcolare il valore della “produzione scientifica” di uno studioso – cioè l’insieme delle sue pubblicazioni su riviste specializzate – e di qui il valore dello studioso stesso. Un esempio noto è l’indice H o indice di Hirsch. Chi non bazzica gli ambienti accademici probabilmente non avrà mai sentito parlare di questa roba, ma l’indice bibliometrico è tutt’altro che un gioco o un mero esercizio teorico: non solo quel numerello dice quanto è influente uno scienziato, ma da noi gli Atenei ricevono i fondamentali soldi del MIUR in proporzione alla somma di questi “valori” dei loro docenti.
Gli indici bibliometrici, che pretendono di essere “misure oggettive” della qualità di uno scienziato, sono nient’altro che semplici combinazioni dei numeri di citazioni ricevute dalle sue pubblicazioni. Senza considerare la qualità di queste citazioni, il loro contesto, le auto-citazioni (con cui uno può far salire a piacere il suo indice), il numero di co-autori (favorendo i boss dei team di ricerca), eccetera.
Così capita che fisici del calibro di Einstein, Dirac o Feynman abbiamo indici H miseri, e che fisici italiani che vincono bandi europei non siano giudicati meritevoli dal MIUR. E inevitabilmente si riconferma che i numeri non rappresentano la qualità, se non per puro caso.
Lo stesso Presidente dell’ANVUR, l’agenzia di valutazione del MIUR che ci costa un bel po’ di milioni all’anno, ha dichiarato recentemente a Report che «quello delle citazioni è un criterio oggettivo per modo di dire». Ciononostante tutti continuano il business as usual. Perché? Sempre per la solita ragione: perché è la cosa più facile da fare.
Se non vogliamo che anche “meritocrazia” diventi sinonimo di ipocrita buffonata, dobbiamo lasciare da parte le sciocche semplificazioni delle valutazioni numeriche.