Qualche giorno fa ho avuto la fortuna di poter ascoltare il racconto di Alberto Cairo – moralmente un gigante, ma timido e sfuggente alla fama come un’educanda – che da quasi 30 anni in Afghanistan fa protesi e riabilitazione per centinaia di migliaia di malcapitati che continuano ad essere mutilati nei costanti attentati con cui si trascina, da decenni, una brutta guerra dimenticata.
Alberto non ci ha riferito numeri e statistiche, no. Ci ha raccontato la sua crescita. I suoi incontri fatali con miserandi e stupefacenti esseri che a conti fatti avevano più forza di lui e gli hanno insegnato a credere a metamorfosi da favola, in cui il rospo diventa un principe e l’avanzo d’uomo o di donna diventa un campione dello sport. Cose che accadono in barba alle obiezioni della ragione e delle prevenzioni, anche grazie all’azione di persone come Alberto e delle associazioni con cui collabora: la grande Croce Rossa Internazionale e la piccolissima Nove onlus di cui è partner.
La sua storia ci ha commosso molto. Ma senza lacrime, in un modo più profondo e importante: ci ha fatto sentire parte della grande famiglia umana che non ha confini, quella di chi soffre sotto il cielo insieme agli altri, e fa del suo meglio per un giorno migliore.