L’Italia è una repubblica fondata sul #lavoro, proclama l’art. 1 della nostra Costituzione. Ma che significa? Quale “lavoro”?
Il lavoro forzato meschino sporco odioso per la sopravvivenza – che sia nell’open space brutto e rumoroso da raggiungere ogni giorno attraverso ore di traffico, oppure in un campo a schiena piegata a raccogliere pomodori – non può essere messo nello stesso fascio col lavoro di un artista/ricercatore che si fonde completamente col suo fare fino all’oblio di tutto il resto, o col lavoro di chi è libero dalle necessità basilari e vuole tenersi occupato per darsi una ragione di vita, o col lavoro di chi accumula sempre più denaro e concentra sempre più potere. Sono modi di impegnare tempo ed energie infinitamente diversi.
Altrettanto diversi sono i modi in cui ciascuno si mette in relazione al mondo con il lavoro che fa. Alcuni dànno, altri tolgono; alcuni creano, altri distruggono; alcuni curano, altri guastano. E noi mettiamo tutto ciò insieme in una sola parola, “lavoro”, e facciamo di questa parolina così esigua il senso della vita e il pilastro della società?
Eppure sappiamo tutti che il lavoro per molti subordinati è una schiavitù, come ricorda Auden; eppure sappiamo tutti che il lavoro per molti sopraordinati è fottere gli altri, come ricorda Pier Luigi Celli. Dunque, accettiamo che la nostra civiltà possa essere fondata anche sulla servitù e sulla prepotenza?
Chiaramente si tratta di una assurdità e di un inganno. Chiaramente questo “lavoro” generico è il residuo consunto di quello stadio infantile della nostra consapevolezza in cui con una parola si poteva indicare magicamente tutto un mondo, dell’antica epoca degli universali e delle essenze.
Adesso solo in fisica si può parlare di “lavoro” generico, perché si tratta di una grandezza definibile matematicamente come prodotto di una forza per lo spostamento dell’oggetto a cui si applica. Ma noi non siamo oggetti inanimati e non possiamo parlare di noi negli stessi termini che si usano per quelli, altrimenti veniamo ridotti a oggetti inanimati, trattati come tali, senza nemmeno sapere come è successo. Per noi “lavoro” può essere anche estasi e tortura, vita e morte, e questo merita grande attenzione.
Ogni glorificazione del “lavoro” in astratto nasconde e sopprime la sofferenza di tutte quelle persone che sono costrette ad accettare condizioni infami di lavoro per vivere, e tuttavia devono sorridere al “lavoro” e ringraziare. Per giunta la norma del “lavoro” stabilisce come criterio di appartenenza alla comunità l’operosità produttiva, che nell’attuale regime storico equivale a dover far crescere il PIL: un numero idiota che non ci rappresenta affatto e non ci aiuta a migliorare, semmai il contrario.
Non è tutto questo umiliante, indegno, poco intelligente e assai poco promettente? Non sarebbe molto più corretto dire che la nostra repubblica è basata sugli esseri umani, e da lì ricominciare da capo?