Ieri un’amica avvocato mi ha confessato di sentire il suo lavoro in pericolo. Aveva saputo che in uno studio di Milano vogliono rimpiazzare i suoi colleghi che stendono gli atti con un’intelligenza artificiale capace di svolgere questo lavoro meglio di loro, potendo consultare migliaia di sentenze e di fonti in un batter d’occhio.
Il rilancio della IA come nuova minaccia al lavoro degli umani è un tema caldissimo, si parla ovunque dell’imminente cacciata di diverse specie di lavoratori sostituiti da software più efficiente, meno costoso e meno problematico. E l’effetto realtà di questa fantasticheria collettiva si può misurare nel concreto timor panico che comincia a serpeggiare in quelle fasce sociali che sono in grado di leggere quegli articoli raffinati, ma non si sentono all’altezza di un futuro in cui – ci dicono – sopravviveranno solo i “creativi”.
Naturalmente si tratta della riedizione di un problema antico: il rapporto tra uomo e macchine. Spesso gli uomini sono stati trattati come macchine perché subordinati alle macchine, e quindi hanno temuto e combattuto le macchine. La chiave di lettura però è nuova, e i commenti sono tanti. Ad esempio questo bell’articolo di Bertalan Mésko, direttore del Medical Futurist Institute di Harvard, il quale prevede che agli umani resterà comunque una “direzione creativa” per scegliere tra varie soluzioni proposte dalle IA, e consiglia di potenziare le nostre inimitabili “soft skills”, empatia, compassione e attenzione per gli altri, cosa con cui ovviamente non potrei essere più d’accordo. Oppure Yuval Harari, che sullo scorso numero di Internazionale sostiene il prossimo avvento di una vasta classe di “inutili” per tenere occupati i quali toccherà inventare qualche nuovo gioco di società, così come il gioco della religione ha sempre fatto felicemente sopravvivere classi sociali che di fatto non producono nulla.
Per me, come ho detto alla mia amica avvocato, non bisogna avere alcun timore della IA, che può essere utile ed è fortemente mitizzata. Quelli che bisogna temere e anche combattere sono coloro che credono, fideisticamente, che il futuro sia l’automazione, e che si possa trovare nel software la soluzione dei dilemmi umani e perfino dei nuovi e giganteschi mutamenti sociali che premono alle porte. Perché sono questi imbelli a fare un cattivo uso di una cosa buona, disponendo disastri.
Proprio per non perdere l’orientamento in questo momento, in cui scelte epocali sono alle porte, è più che mai cruciale tenere presente la linea di confine tra ciò che è calcolabile e ciò che è #incalcolabile. Come testimoniano anche i due autori appena citati, solo la consapevolezza e il rispetto della non riducibilità al numero – quindi a software – di ciò che dà senso alla nostra vita potrà salvarci dalla catastrofe dei modernisti freddi.