Amartya K. Sen in La libertà individuale come impegno sociale:
La tradizione utilitarista pone in rilievo non tanto la libertà di raggiungere risultati, quanto piuttosto i risultati conseguiti. Inoltre essa valuta questi risultati in termini di condizione soggettiva, quale il piacere o il desiderio (la “utilità”). […] Il calcolo utilitaristico è in realtà profondamente distorto nel caso di coloro che essendo cronicamente in condizione di privazione, non hanno il coraggio di desiderare molto di più di quanto già posseggano e gioiscono per quanto possono dei loro piccoli sollievi, poiché le loro privazioni appaiono meno acute usando il distorto parametro dei piaceri e dei desideri. La misura dell’utilità può isolare l’etica sociale dalla valutazione dell’intensità della privazione del lavoratore precario, del disoccupato cronico, del coolie sovraccarico di lavoro o della moglie completamente succube, i quali hanno imparato a tenere sotto controllo i loro desideri e a trarre il massimo piacere da minime gratificazioni.
Non pochi hanno pensato e pensano di capire gli esseri umani con questi calcoli superficiali su ciò che si desidera o non si desidera, come se il comportamento visibile di qualcuno fosse il dato esaustivo. Ma il fatto è che la nostra realtà è molto più stratificata e difficile da comprendere, i desideri possono essere inesprimibili o contraddittori, la soddisfazione può essere illusoria e una sottile scorza per l’infelicità, adattamento alla prigione invisibile delle condizioni sociali.
Tutto ciò è infinitamente lontano dal calcolabile.
Gli economisti dovrebbero andare a lezione dai drammaturghi, oppure dai pochi fra loro che come Sen hanno pari sensibilità. Un suo esempio pratico ci chiarirsce ancora meglio le idee.
Un’argomentazione che viene spesso avanzata [per spiegare l’alto tasso di analfabetismo nell’India rurale] è che l’analfabeta indiano non è particolarmente scontento del proprio stato, e l’istruzione non rappresenta uno dei desideri più intensi dell’indiano che di essa è privato. Come descrizione della condizione psicologica dell’analfabeta indiano, può anche essere corretta. Ma l’analfabetismo costituisce altresì una mancanza di libertà – non solo una mancanza della libertà di leggere, ma anche una riduzione di tutte le altre libertà che dipendono dalle forme di comunicazione in cui è necessario il possesso della capacità di leggere e scrivere. Qui, di nuovo, un’etica sociale che faccia perno sulla libertà ci porta in una direzione piuttosto differente rispetto a quella indicata da calcoli sociali basati sui piaceri o sui desideri.