Due anziani mi passano accanto.
Uno dice: Fa sempre finta di non vederci!
L’altro replica: Ma no… stava soprappensiero.
In questo minuscolo scambio c’è tutta una antitesi essenziale della vita sociale: il conflitto tra il pensar bene e il pensar male degli altri.
La noto da quando ero molto piccolo. E sempre in entrambi i casi era una scelta arbitraria, un giudizio senza prove. Una presa di posizione priva di basi concrete e quindi (in)capace di prevedere il futuro tanto quanto la sua opposta. Era più che altro l’esito di un duro match di decibel, tra il rumore che ci fanno dentro i nostri pensieri e il grido dei nostri simili che arriva da fuori. Era la zuffa tra superstizioni inveterate, abitudini familiari, e la sensibilità empatica che il nostro corpo possiede. Era dimenticare oppure considerare, più o meno inconsciamente, che gli altri hanno probabilmente tutti i nostri guai, i nostri fardelli, le nostre debolezze, e forse persino di più. Che la vita è bella e faticosa per tutti, e finisce per tutti.
In mancanza di lampanti prove contrarie, io non ho alcun dubbio: per me è presunzione d’innocenza, sempre.
La presunzione d’innocenza insegno a mia figlia. La presunzione d’innocenza testimonio ovunque mi trovi, perché vorrei che si facesse strada dentro tutti quelli che pensano male. Prima di tutto per loro stessi: perché chi pensa male si oscura il mondo da sé col suo nero di seppia, illudendosi di essere più furbo è solo più tetro e sfortunato. Mentre la vita di chi pensa bene è molto più bella e luminosa, come una terrazza sul mare.